di Francesco Garis
(pubblicato su La Vita Casalese del 31 ottobre 2007)
La 45° Settimana sociale dei cattolici italiani si è ormai conclusa da tre settimane e forse l’attenzione pubblica (anche nel mondo cattolico) non ha colto in pieno la ricchezza del contributo di idee e di riflessione che essa ha inteso offrire per la vita civile ed ecclesiale del Paese. Richiamarne alcuni passaggi può essere dunque utile per non lasciare che tutto scorra senza entrare in profondità, senza incidere nella realtà.
Il tema attorno a cui ruotavano le varie sessioni è uno dei pilastri della dottrina sociale della Chiesa: il bene comune. Questo “non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto del corpo sociale. Essendo di tutti e di ciascuno è e rimane comune, perché indivisibile e perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo, accrescerlo e custodirlo, anche in vista del futuro” (Gaudium et Spes).
Ho trovato stimolante la domanda, non retorica, che l’economista Zamagni si è posto nella sua relazione: c’è posto, oggi, per la categoria del bene comune entro il discorso e la pratica dell’economia? Le risposte possono variare a seconda dei punti di vista, ma mi pare condivisibile la riflessione che il professore universitario ha voluto sviluppare: “il bene comune è oggi sotto attacco da un duplice fronte, quello dei neoliberisti e quello dei neostatalisti”. Nei primi Zamagni vede il limite dell’accontentarsi di una filantropia che considera i soggetti deboli “oggetti” delle attenzioni altrui; nei secondi l’adesione ad un modello che inevitabilmente innesca la “trappola della dipendenza riprodotta” nei confronti dei segmenti deboli ed emarginati della popolazione.
La sfida, secondo Zamagni, è quella di ripensare la carità, e dunque la fraternità, come “cifra della condizione umana”, vedendo nell’esercizio del dono gratuito il presupposto indispensabile affinché Stato e mercato possano funzionare avendo di mira il bene comune.
Nella stessa direzione tracciata da Zamagni ha sviluppato il suo intervento il sociologo Donati, che ha parlato del welfare del futuro descrivendolo come “relazionale, plurale e solidale”. L’accento è stato posto soprattutto sul concetto di stato sociale relazionale: un modello di welfare che concepisce il bene comune come qualcosa che valorizza “le reazioni di reciproco arricchimento delle persone libere e responsabili”.
Potrebbero sembrare argomenti lontani dai temi che le nostre comunità vivono nella quotidianità.
Affrontarli, però, significa rispondere attivamente all’invito che la Chiesa rivolge ai laici di partecipare in prima persona alla vita pubblica e di cooperare, insieme con tutti gli altri cittadini e sotto la propria autonoma responsabilità,alla costruzione di una società più giusta e fraterna.
Riscoprire la comunità cristiana come luogo nella quale si acquisiscono la passione per la giustizia, la tensione verso la pace, l’attenzione ai poveri e agli ultimi; in cui ci si attrezza a comprendere i problemi della società alla luce della dottrina sociale e del Vangelo.
È questa la base necessaria per tornare a elaborare una cultura politica cristianamente ispirata. Nelle sue migliori stagioni, è stato ricordato da Riccardi nell’apertura della Settimana sociale, il movimento cattolico ha avuto questa capacità progettuale (si pensi alla lucidità programmatica del Partito Popolare di Sturzo o alle intuizioni del “Codice di Camaldoli”).
A noi chiamati a vivere questo tempo tocca proseguire sulla strada tracciata da tanti uomini e donne che in cent’anni di storia (la prima Settimana si svolse nel 1907) ci consegnano un messaggio chiaro: non si può vivere chiusi in se stessi, solo per proteggersi, ma occorre pensare agli altri, intraprendere per loro, amarli, aiutarli.
È una lezione per noi credenti, un insegnamento prezioso per le nostre comunità ma è anche l’anima per il futuro del nostro Paese.
Il tema attorno a cui ruotavano le varie sessioni è uno dei pilastri della dottrina sociale della Chiesa: il bene comune. Questo “non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto del corpo sociale. Essendo di tutti e di ciascuno è e rimane comune, perché indivisibile e perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo, accrescerlo e custodirlo, anche in vista del futuro” (Gaudium et Spes).
Ho trovato stimolante la domanda, non retorica, che l’economista Zamagni si è posto nella sua relazione: c’è posto, oggi, per la categoria del bene comune entro il discorso e la pratica dell’economia? Le risposte possono variare a seconda dei punti di vista, ma mi pare condivisibile la riflessione che il professore universitario ha voluto sviluppare: “il bene comune è oggi sotto attacco da un duplice fronte, quello dei neoliberisti e quello dei neostatalisti”. Nei primi Zamagni vede il limite dell’accontentarsi di una filantropia che considera i soggetti deboli “oggetti” delle attenzioni altrui; nei secondi l’adesione ad un modello che inevitabilmente innesca la “trappola della dipendenza riprodotta” nei confronti dei segmenti deboli ed emarginati della popolazione.
La sfida, secondo Zamagni, è quella di ripensare la carità, e dunque la fraternità, come “cifra della condizione umana”, vedendo nell’esercizio del dono gratuito il presupposto indispensabile affinché Stato e mercato possano funzionare avendo di mira il bene comune.
Nella stessa direzione tracciata da Zamagni ha sviluppato il suo intervento il sociologo Donati, che ha parlato del welfare del futuro descrivendolo come “relazionale, plurale e solidale”. L’accento è stato posto soprattutto sul concetto di stato sociale relazionale: un modello di welfare che concepisce il bene comune come qualcosa che valorizza “le reazioni di reciproco arricchimento delle persone libere e responsabili”.
Potrebbero sembrare argomenti lontani dai temi che le nostre comunità vivono nella quotidianità.
Affrontarli, però, significa rispondere attivamente all’invito che la Chiesa rivolge ai laici di partecipare in prima persona alla vita pubblica e di cooperare, insieme con tutti gli altri cittadini e sotto la propria autonoma responsabilità,alla costruzione di una società più giusta e fraterna.
Riscoprire la comunità cristiana come luogo nella quale si acquisiscono la passione per la giustizia, la tensione verso la pace, l’attenzione ai poveri e agli ultimi; in cui ci si attrezza a comprendere i problemi della società alla luce della dottrina sociale e del Vangelo.
È questa la base necessaria per tornare a elaborare una cultura politica cristianamente ispirata. Nelle sue migliori stagioni, è stato ricordato da Riccardi nell’apertura della Settimana sociale, il movimento cattolico ha avuto questa capacità progettuale (si pensi alla lucidità programmatica del Partito Popolare di Sturzo o alle intuizioni del “Codice di Camaldoli”).
A noi chiamati a vivere questo tempo tocca proseguire sulla strada tracciata da tanti uomini e donne che in cent’anni di storia (la prima Settimana si svolse nel 1907) ci consegnano un messaggio chiaro: non si può vivere chiusi in se stessi, solo per proteggersi, ma occorre pensare agli altri, intraprendere per loro, amarli, aiutarli.
È una lezione per noi credenti, un insegnamento prezioso per le nostre comunità ma è anche l’anima per il futuro del nostro Paese.
Nessun commento:
Posta un commento